La madre perfetta non esiste: elogio alla vulnerabilità

E’ dalle scelte sbagliate

che impariamo quali sono le scelte migliori

 

Può succedere che agli occhi dei nostri figli adolescenti noi mamme dobbiamo essere perfette, sempre all’altezza di tutte le loro aspettative.

Ecco un esempio tratto da un frase che mia figlia 15 anni mi ha detto: “Proprio tu che sei mia madre non puoi non aver lavato il mio body in tempo per la lezione di danza. Ma che razza di madre sei?”.  Questo è un esempio ma potrebbero essere molteplici le frasi che ci sono rivolte riguardanti il nostro ruolo che nella vita stiamo coprendo che può essere quello di madre o lavorativo.

Qui, mia figlia ha rivelato cosa si aspettava dal mio ruolo di madre, ma si è dimenticata il mio essere umano, con dei limiti come persona che non può essere la madre perfetta che si aspetta. Credo che in ogni comunicazione, anche la più forte, la persona ci stia facendo un regalo, rivelando se stesso e cosa si aspetta da noi e quali suoi bisogni sono frustrati. Nel caso di mia figlia desiderava sicurezza nel fatto che avesse il necessario per andare a danza. Nello scambio reciproco si può portare alla luce una comunicazione fondata sull’umanità di ogni persona, superando il ruolo che abbiamo in quel momento per poi scoprire che la madre perfetta o la moglie perfetta o l’insegnante perfetta non esiste nella realtà.

Non abbiamo nessun controllo sulle etichette che gli altri mettono su di noi. Tutto quello che ognuno di noi può riconoscere in se stesso, è che quanto più ci occupiamo di un ruolo come: madri, mogli o lavoratrici tanto più è facile che gli altri ci vedano solo in merito al ruolo che ricopriamo.

Possiamo solo cercare di esercitarci ad ascoltare bene, a dare empatia a noi stessi e agli altri, avere buone intenzioni, presupporre buone intenzioni altrui e non accettare di essere messe dentro scatole statiche.

Ci aiuta certamente comprendere che possiamo arricchirci reciprocamente, con il sincero desiderio di imparare dai nostri limiti. Ecco una cosa importante: riconoscere i nostri limiti, riconoscere la nostra vulnerabilità.

Il potere quello vero non è sugli altri, ma su di sé. Essere empatici accoglienti vuol dire in primis essere empatici con tutte le parti di noi stessi, quelle che ci fanno sentire forti e sicuri e quelle che ci fanno sentire indifese e vulnerabili. Nessuno di noi è Wonderwoman abbiamo tutte accumulato nella nostra storia, dolcezza e durezza, sicurezza e debolezza.

Comunicare con empatia con noi stessi non vuol dire ingoiare o nascondere i nostri aspetti più sensibili, come se non ci fossero, ma accettare e accogliere la nostra vulnerabilità prendercene cura.

Quando non siamo comprensivi, accettanti con noi stessi è molto difficile esserlo con gli altri. Cresciuti come siamo in una cultura basata sul potere, dove c’è chi vice e chi perde, dove c’è chi ha ragione e chi a torto, chi è competente e chi è incompetente.  Ecco che ci lasciamo giudicare dagli altri o da parti di noi stessi, lasciando che ci sia detto come dobbiamo essere, cosa in noi è giusto e cosa è sbagliato. Coltivare la nostra vulnerabilità, sensibilità, Rosenberg dice ciò che è vivo in noi, vuol dire riappropriarsi del potere personale di scegliere di vivere ogni istante abbracciando i nostri sentimenti e bisogni, indipendentemente da quello che ne pensano gli altri.

Riconoscere la nostra vulnerabilità vuol dire prendere consapevolezza che ogni nostra “debolezza” ci sta insegnando qualcosa di noi: la timidezza ci insegna ad ascoltare gli altri, la paura a essere prudenti, l’insicurezza a rafforzare gli strumenti di cui disponiamo ecc..

Quando riconosciamo la nostra vulnerabilità e ce ne facciamo carico, nessuno potrà ferirci perché siamo ben informati di quella parte di noi e siamo accoglienti nei suoi confronti.

Quando ci sentiamo “attaccati”, è importante chiederci se il motivo non può essere riconosciuto nel fatto che l’altro mette in dubbio le nostre convinzioni. Se siamo convinti di essere perfette ogni disconferma a ciò la sentiamo come un attacco.  Se invece riusciamo a guardarci con empatia, allora scopriamo che ognuno di noi fa il meglio che riesce a fare in quel momento.

Non sono gli altri a “ferirci” ma sono le nostre convinzioni, pensieri di come dovremmo essere noi o di come dovrebbero essere gli altri. In sostanza non è ciò che accade, ma cosa ne facciamo. Nella misura in cui sono barricata su come sono o come dovrei essere io o di come dovrebbero essere gli altri, ogni affermazione che sembra contraddire questi miei pensieri posso viverli come un attacco, un’offesa.

Quando invece provo colpa o vergogna la storia è un’altra. La vergogna è quella parte di noi che ci dice: “Non sei abbastanza brava, competente, capace, intelligente…” e la colpa invece ci dice che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato: “Hai sbagliato dovevi fare in questo modo invece che in quell’altro modo”.

L’empatia è l’antidoto a tutti questi sentimenti di rabbia, di colpa e di vergogna spezza tutti i giudizi che abbiamo su di noi o che gli altri hanno su di noi e ci riconduce a qualcosa di prezioso a qualcosa d’imperfetto, a noi stessi e ad abbracciare la nostra vulnerabilità.

Giuditta Mastrototaro

Bibliografia:

Ludovica Scarpa. Senza offesa, fai schifo. Ponte alle Grazie.

Montessori Maria. Il bambino in famiglia. Garzanti.

Mastrototaro Giuditta. Nascere e crescere alla luce dell’educazione empatica. Streetlib.

Rosenberg, Marshall B.: Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta; Edizioni Esserci.

Rosenberg, Marshall B.: Comunicazione empatica; Edizioni Esserci.