Le ferite della nostra infanzia

L’infanzia è un periodo delicato e sensibile. Anche se non tutti hanno avuto figli, ognuno di noi ha avuto la sua infanzia. Siamo stati tutti bambini e abbiamo appreso consapevolmente o inconsapevolmente dei modi di reagire a ciò che ci è accaduto. Questi modi di vedere le cose, le possiamo chiamare abitudini mentali, con le quali vediamo il mondo, con le quali ascoltiamo ciò che gli altri ci dicono o con le quali reagiamo. La cosa difficile e rendersene conto, diventarne consapevoli per non riproporle alle persone a cui vogliamo bene, sopratutto se sono convinzioni che non ci fanno stare bene.

Nell’ascoltare le persone che arrivano in Consulenza Pedagogica, perché le aiuti a risolvere delle situazioni spinose che stanno vivendo, mi sono accorta che ognuno di noi è particolarmente sensibile a certe situazioni piuttosto che ad altre,  che evocano probabilmente dei dolori che ci portiamo dentro da tanto tempo.  Lise Bourbeau ha assegnato un nome a ognuno di questi dolori chiamandole ferite: Rifiuto, abbandono, umiliazione, tradimento, ingiustizia.

Personalmente non mi piace il termine ferita perché potrebbe evocare un giudizio e ogni volta che attribuiamo agli altri il potere di farci sentire in qualche modo ad esempio: “Mi ha ferita” possiamo negare la responsabilità del nostro modo di interpretare quello che ci è successo.

La stessa dott.ssa Bourbeau spiega che non si tratta di qualcosa che i nostri genitori intenzionalmente hanno fatto a noi, ma è il modo in cui noi interpretiamo ciò che ci è successo nella nostra infanzia.

Così ancora oggi quel dolore si attiva e diamo la colpa agli altri o a nostri bambini per quello che proviamo dicendoci: “Lo fa apposta a…” oppure: “Non ha nessun rispetto per…” “E’ proprio un bambino testardo…”. Questi pensieri ci stanno parlando di noi e di come siamo ancora collegati a schemi di pensiero piuttosto giudicanti e critici. Ce ne accorgiamo quando ci ritroviamo anche nel nostro dialogo interiore con pensieri come: “Non sono abbastanza…” oppure “Non sono amata” oppure “Tanto non ci riesco è inutile che ci provi!”.

Quando diamo ospitalità a questi pensieri, la tristezza può trasformarsi in dolore e il dolore può diventare rabbia. La rabbia può esprimersi in due modi: verso noi stessi o verso gli altri.

Tutte le volte che ci troviamo a giudicare noi stessi o gli altri non siamo connessi a quello di cui abbiamo bisogno.

C’è una buona notizia, l’empatia può aiutarci nel passare dal pretendere che gli altri ci diano quello di cui abbiamo bisogno, all’assumerci la responsabilità verso noi stessi. Siamo noi che possiamo davvero renderci felici, cambiando i nostri mondi interpretativi che mettono nelle mani degli altri come ci sentiamo.

La dott.ssa Lise Bourbeau ha proprio identificiato cinque modi diversi di reagire alle proprie ferite sia in termini emotivi, come azioni reattive che nell’apparire del proprio corpo:

  • Le persone che si dicono di non essere abbastanza, temono di essere rifiutate. Reagiscono fuggendo di fronte alle situazioni in cui si sentono in difficoltà. Il loro corpo è molto tonico.
  • Le persone che si dicono di non essere sufficientemente capaci, si sentono spesso tristi e hanno paura di essere abbandonate. Spesso creano legami molto stretti di dipendenza. Il corpo mostra qualche parte senza tono oppure assumono una postura inclinata in avanti, come se avessero bisogno di un sostegno per stare su.
  • Le persone che si sentono spesso inadeguate, possono vivere la paura di essere umiliate. Reagiscono facendosi carico di molte responsabilità e quante più ne assumono, tanto più tendono a occupare spazio sia dal punto di vista sociale, che lavorativo, che fisico diventando piuttosto rotonde.
  • Le persone che si sentono spesso deluse, possono aver paura di essere tradite. Reagiscono cercando di tenere tutto sotto controllo. Il corpo esprime imponenza con pettorali ben sviluppati oppure nei fianchi piuttosto larghi.
  • Le persone che di fronte alle contrarietà della vita provano molta rabbia e temono di essere trattate ingiustamente, spesso reagiscono di fronte alle situazioni in cui si sentono in difficoltà con rigidità. Il loro corpo è di solito ben dritto e proporzionato.

L’autrice stessa afferma che ognuno di noi può avere più ferite e che possiamo sentire cose diverse in una fase della vita, piuttosto che in un’altra.

Non importa secondo me se ci riconosciamo a pieno in uno di queste caratteristiche, la cosa importante è avere consapevolezza di cosa ci stiamo dicendo nei nosti dialoghi interiori e riconoscere che dietro la sofferenza c’è spesso una mancata empatia con noi stessi.

E’ arrivato il momento di mettere in discussione le convinzioni che ci limitano. Possiamo vivere meglio con noi stessi e con gli altri senza giudicarci e senza il fardello delle nostre paure. Nessuno fa qualche cosa per rifiutarci, per abbandonarci, per umiliarci, per tradirci o per farci un’ingiustizia. Ognuno fa quello che sa fare in quel momento per rispondere ai suoi bisogni, anche se usa strategie non condivisibili. Se impariamo a riconoscere i giudizi moralistici e ad avere compassione per noi stessi, gradualmente riusciremo ad averne anche per le persone che sono intorno a noi, imparando a distinguere le loro azioni dai loro bisogni.

Ognuno di noi ha il potere di cambiare i propri pensieri limitanti e può vivere con più armonia e pace interiore. La cosa più preziosa che possiamo fare allora non è eliminare tutti i giudizi,  ma piuttosto non alimentarli con un continuo rimuginio interiore. Coltivando invece i pensieri che ci portano verso l’accettazione, la pazienza, il rispetto, l’ascolto, la considerazione, la gentilezza, la comprensione, la libertà, la pace, l’ empatia e l’amore.

Giuditta Mastrototaro

Bibliografia per approfondire:

Lise Bourbeau. Le cinque ferite e come guarirle. Edizione AMRITA.

Lise Bourbeau. Le cinque ferite vol. II. Nuove chiavi di guarigione. Edizioni AMRITA.