Chi litiga è un bullo?

Litigare tra compagni, litigare tra fratelli, litigare tra colleghi. Chi di noi può dirsi immune dai conflitti? Forse man mano che cresciamo, usiamo modi più sottili per esprimere le nostre frustrazioni. Sentire rabbia dentro di sé è un sentimento che possiamo condividere con tutti gli esseri umani. Si sente parlare sempre più spesso di bulli e bullismo. Chi è il bullo? Cos’è il bullismo? Chi litiga è un bullo o un violento?

Ogni volta che giudichiamo, ci allontaniamo dall’umanità delle persone perché emettiamo dei giudizi di valore che alla fine possono essere riassunti in due essenziali categorie: i buoni e i cattivi.

Per non cadere in queste etichette vale la pena approfondire la distinzione tra che cosa distingue un litigio da atti di violenza.

Si usa la violenza quando si vede un’unica soluzione a un problema relazionale che è quello di annientare l’altro fisicamente o psicologicamente attraverso atti intenzionali che provocano danni importanti.

Il litigio invece esprime una contrarietà in cui ogni contendente desidera che  la propria soluzione sia accettata dall’altro.

La persona che usa la violenza per soddisfare i propri bisogni, fa fatica a distinguere la persona che ha davanti con il suo problema, non riesce a esprimere attraverso la comunicazione  i suoi vissuti emotivi perché egli stesso non è in grado di riconoscerli e gestirli.

E’ stato dimostrato da numerosi studi che deficit nelle abilità relazionali e in particolar modo nell’empatia possono portare a sviluppare psicopatie.

Nei bambini il riconoscimento e la regolazione delle proprie emozioni sono in evoluzione, per cui tanto più un bambino è piccolo e tanto più è facile che usi la forza per ottenere un gioco o delle attenzioni, ma certamente non l’ho fa con l’intenzione di fare del male o cagionare un danno all’altro.

Inoltre,  fino a sette anni secondo lo sviluppo mentale di Jean Piaget, il bambino si trova nella fascia pre-operatoria e per questo non ha la capacità di elaborare un piano articolato e intenzionale in grado di generare azioni vendicative o che siano finalizzate a provocare un danno reiterato nel tempo.

In realtà, un bambino sotto i sette anni ha un pensiero magico e autocentrato quindi è alquanto illogico definirlo un bullo.

Ciò che può succedere con i ragazzi più grandi è invece che l’agito di azioni cariche di violenza  siano il tragico tentativo di essere visti e considerati e di pensare alla la vita reale come fosse invece un mondo virtuale, quindi senza rendersi pienamente conto delle conseguenze.

Gli effetti di questi agiti saranno dolorosi per tutti i soggetti che in qualche modo partecipano alla violenza. Chi compie qualcosa contro qualcun altro in modo intenzionale e reiterato nel tempo è chiamato bullo soprattutto se è sostenuto da un gruppo di compagni che avvalla o non interviene di fronte questi atti.

Gli attori del bullismo sono almeno tre: il bullo che svilupperà nel tempo una forma grave di insensibilità per i suoi sentimenti e quelli dell’altro, la vittima che si mette nella condizione di provare una profonda solitudine impotenza e il pubblico spettatore che sarà esposto ad atti diseducativi.

Venire a sapere che il proprio figlio è vittima di bullismo per un genitore è piuttosto angosciante e spesso si è presi dalla rabbia perché si vorrebbe intervenire per mettere a posto le cose. In realtà, non c’è niente di più umiliante per un ragazzo che sentire di non farcela da solo, tanto da chiedere aiuto a mamma o papà.

Proprio in una fase della vita in cui vuole sentirsi capace e autonomo, aver ancora bisogno di protezione può essere frustrante, per questa ragione spesso i ragazzi tendono a non parlarne.

Allora cosa possono fare i genitori, gli educatori e gli insegnanti quando si accorgono che c’è qualcosa che non va nella relazione dei ragazzi con i coetanei:

  1. Osservare la situazione sospendendo ogni giudizio.
  2. Non minimizzare. Si corre il rischio di non cogliere i vissuti dei ragazzi.
  3. Fare da specchio e rendere consapevoli delle ragioni e dei sentimenti che vengono espressi. Quanto più noi adulti interveniamo con giudizi e critiche tanto più mostriamo sfiducia nelle loro capacità di riuscire a farcela da soli.
  4. Mostrare empatia e ascoltare. Come genitori o insegnanti siamo chiamati a rendere consapevoli i nostri figli o i nostri alunni dei loro sentimenti e bisogni. Ogni contrarietà può essere un’occasione di apprendimento per conoscere meglio se stessi e gli altri.
  5. Essere attenti quando alcune situazioni sembrano sospette. Non affrontiamo i ragazzi singolarmente, ma con l’intero gruppo in cui si giocano queste relazioni, perché la responsabilità non può essere circoscritta ai due contendenti, si è verificata nel gruppo spettatore e si risolverà nello stesso gruppo, in modo che siano stimolate le risorse educative funzionali invece che avvallare relazioni sbilanciate e disfunzionali. Occorre spezzare il muro del silenzio e del non detto, comunicando il più possibile con trasparenza e onestà.
  6. Prendere sul serio la fatica di stare nel conflitto da parte non solo dei ragazzi ma anche di noi adulti. Partecipare a training di alfabetizzazione emotiva. Se ci ascoltiamo, possiamo anche decidere che abbiamo bisogno di supporto e di coesioni con gli altri genitori o educatori per affrontare con più competenza queste situazioni.
  7. Raccogliere informazioni se ci sono altri ragazzi che vivono lo stesso problema.
  8. Chiedere alle istituzioni di intervenire come problema all’interno della scuola e non come situazione singola. Occorre passare dal concetto: “quel ragazzo ha un problema alla nostra scuola ha un problema”.
  9. Invitare il ragazzo a tenere un suo diario nel quale annota tutto quello che gli succede e che non è necessario che condivida con nessuno, ma che può essere un valido strumento di consapevolezza: “Se faccio quello che mi chiedono sarò accettato? Quello che faccio è davvero quello che vorrei fare?” “C’è qualcosa che non va in me?”
  10. Formare e informare gli adulti e i ragazzi sulla gestione dei conflitti per comprendere la differenza tra litigio e violenza. Esistono molte iniziative volte alla prevenzione del bullismo e del ciberbulismo.
  11. Essere coerenti nei valori in cui crediamo. Se crediamo davvero che accogliere le divergenze e i diversi punti di vista siano fonte di ricchezza allora tutti hanno il diritto al rispetto. Si possono trovare molti modi per rispondere ai bisogni di tutti senza pretendere che le nostre ragioni vadano sopra quelle  degli altri. Possiamo anche scegliere di implementare le nostre competenze partecipando a seminari sulla gestione dei conflitti (puoi guardare nelle mia sezione seminari).
  12. Allenare l’empatia. E’ possibile svolgere in classe lezioni partecipate, dove ognuno è chiamato a dare un nome alle emozioni e a cooperare nel prendere in carico il problema di qualcuno e farlo diventare il problema di tutti.

Il problema va affrontato a livello istituzionale, scolastico, familiare e in sinergia con gli stessi ragazzi perché si possano sviluppare strumenti efficaci di ascolto, fiducia e gestione dei conflitti. L’empatia è una preziosa competenza per creare relazioni sane e attente ai propri e altrui vissuti.

Giuditta Mastrototaro

Questo articolo è uscito sul Blog Il bambino Naturale del Leone Verde: Chi litiga è un bullo?

 

Fonzia A, 1999. Il gioco crudele. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo. Giunti Firenze.

Goleman D, 1997. Intelligenza emotiva. Bur Milano.

Gordon T. , 1997 Genitori efficaci. Educare figli responsabili. La meridiana. Molfetta (BA).

Daniele Novara 2013. Litigare fa bene. Bur Milano.