Spiegare la violenza attraverso l’empatia

Sentiamo in tv situazioni di conflitti, osserviamo immagini di attentati e leggiamo notizie sempre più allarmanti su femminicidi. Un bambino può rimanere incantato a vedere in tv una scia luminosa che quando si scaglia per terra fa una luce abbagliate e magari chiede: “Cos’è?” Come si fa a dire ai bambini che quella è una bomba? Come si fa a spiegare ai bambini la violenza?

I bambini possono assistere molto presto a immagini violente ad esempio in tv ma possono anche ritrovarsi a viverle da vicino e rimanere scioccati, turbati o imparuriti.

Tentare di spiegare ai bambini la violenza dell’uomo o della natura quanto più sono piccoli, tanto più è inefficace perché è come dare un pasto indigesto a un esserino che non ha ancora gli strumenti per comprenderlo e digerirlo. Inoltre l’esposizione del bambino a immagini reiterate come scene trasmesse più volte ad esempio di un incidente ferroviario, per il bambino non è il deragliamento di un treno, ma sono 2/10/100 treni che deragliano e tantissime persone intrappolate nei vagoni. L’esposizione ripetuta può essere una delle cause della nascita delle fobie.

In base all’età e allo stadio evolutivo in cui il bambino si trova nella sua crescita, egli coglie la realtà che lo circonda in modo differente. Ad esempio mentre in un bambino di nove anni si è già formato il concetto d’irreversibilità, per un bambino di tre anni la situazione è diversa perché il concetto astratto d’irreversibilità o di morte non lo conosce appieno. Per questa ragione è assolutamente inutile spiegarglielo a parole, la cosa più facile che può accadere è che ci chieda perchè il nonno non venga più a trovarlo e come mai se schiaccia una formica, quella non ritorna a camminare.

Allora la prima cosa da fare è osservare i bambini e rimanere un po’ in empatia con loro, per comprendere se attraverso un comportamento verbale o non verbale, ci stanno esprimendo il loro spavento o il loro turbamento. Se il bambino è in grado di comunicare verbalmente cercherò di partire da quello che sa. Il ruolo dell’adulto non sarà quello di dirgli: “Adesso ti spiego..” perché in questo modo la comunicazione diventa unidirezionale, ma se davvero vogliamo cogliere queste domande come strumenti relazionali, occorrerà dedicagli ascolto e tempo, come se accendessimo una torcia in un punto buio dello spazio e osservassimo cosa c’è già, prima di immettergli dentro ciò che non c’è ancora e che magari in quello spazio non ci sta.

Cinquant’anni fa si diceva ai bambini quando facevamo una domanda che metteva a disagio il genitore: “Te lo spiego quando sarai più grande” e questo chiudeva la comunicazione e il bambino rimaneva con un senso d’irrisolto. Oggi educatori o genitori hanno maggiore consapevolezza che le domande dei bambini sono molto importanti perché aprono una comunicazione e una relazione di fiducia, dove non c’è nessuna domanda che non possiamo accogliere. Anche quelle più difficili possono ricevere una risposta adeguata alla loro crescita evolutiva ed emotiva. Ad esempio se un bambino di quattro anni vuole sapere perchè quel bambino dopo lo sparo non si rialza più o perchè il suo cane dopo quell’incidente non torna più a casa, la prima cosa che gli dirò è:” Ti sei spaventatonel vedere quel bambino per terra? oppure “Ti manca molto il tuo cane?” e così che possiamo assegnare un nome al sentimento che prova e un significato che quell’immagine o a quel vissuto concreto evoca dentro di lui. Se sentiamo che non è sufficiente un collegamento solo verbale, possiamo chiedergli anche una connessione rappresentativa: “Vuoi farmi un disegno?” In questo modo possiamo partire da quello che c’è nel suo immaginario. Successivamente possiamo aprire degli spazi di rielaborazione come ad esempio: “E poi cosa è accaduto secondo te?”  anche gli eventi più spaventosi hanno un storia successiva fatta di pensieri, di sensazioni, di emozioni e di fantasia. Se riaccendiamo il pensiero creativo, possiamo accedere a una nuova storia che preveda un recupero della situazione o di un lieto fine, che diventa meno pauroso perché diamo l’occasione al bambino di essere cocreatore della realtà, invece che esserne sopraffatto.

Un’accortezza che possiamo adottare come adulti è quella di proteggere i bambini filtrando programmi e giochi mediatici con cui vengono a contatto e che poi hanno come effetto che il bambino è più agitato. Un altro elemento importante per essere davvero d’aiuto è riconoscere il nostro senso di smarrimento o di ansia nei confronti della situazione. Se siamo noi stessi sconvolti per quell’immagine vista in tv o per l’incidente che ha avuto il nostro cane, risulterà difficile rassicurare il bambino. Se restiamo consapevoli dei nostri turbamenti riusciamo meglio a non riversali sui nostri figli con atteggiamenti iperprotettivi e con frasi come: “Sei sicuro di star bene?”. L’ansia e la paura sono emozioni  contagiose. Non possiamo rassicurare un bambino, quando noi per primi siamo turbati o spaventati.

Infine, la protezione più grande che possiamo donare ai bambini è favorire molte più esperienze di dialogo con loro, di pace, di rispetto, di solidarietà e di cura. In questo modo l’educazione alla non violenza passa dalla teoria alla pratica, attraverso atti concreti: accogliendo tra le braccia un bambino spaventato, mostrando solidarietà a situazioni difficili di cui veniamo a conoscenza, facendo esperienza di cura come attraverso un piccolo massaggio, sperimentando insieme a lui/lei giochi non competitivi ma cooperativi, prendendosi cura di una piantina o di un animale o di uno spazio che tutti condividono. Non possiamo vigilare o controllare ogni istante la vita dei nostri figli e gli eventi a cui possono nostro malgrado rimanere coinvolti, ma se lasciamo aperta la porta di una comunicazione basata sull’empatia, possiamo donargli la fiducia che qualunque immagine o evento spiacevole incontreranno potranno sempre  parlarcene.

Giuditta Mastrototaro

Articolo uscito sulla rivista UPPA